1. A01.
Leggi il seguente testo e poi rispondi alle domande
"Ispirati dagli archivi 2016". - Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti
"Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto". Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento "Ispirati dagli archivi 2016" dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. "Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'". A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. "E non ne rimase nessuno", con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del "topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose". "Abbiamo un account Twitter" continua Cherchi "vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali". E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano "mediatori del diritto nei casi di richieste di oblio. Quando sono stati pubblicati online i documenti "degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie". Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. "Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo", ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di "archivi parlanti", in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato", ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono.
Il termine "testimonial" evidenziato nel testo,
che accompagna il nome di Andrea Camilleri, indica che l'autore siciliano
è l'ispiratore dell'evento "Ispirati dagli archivi 2016"
è un personaggio famoso che mette il suo nome per sostenere un evento
2. A02.
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"Ispirati dagli archivi 2016". - Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti
"Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto". Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento "Ispirati dagli archivi 2016" dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. "Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'". A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. "E non ne rimase nessuno", con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del "topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose". "Abbiamo un account Twitter" continua Cherchi "vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali". E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano "mediatori del diritto nei casi di richieste di oblio. Quando sono stati pubblicati online i documenti "degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie". Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. "Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo", ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di "archivi parlanti", in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato", ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono.
Le pagine custodite negli archivi sono definite "preziose" (parola evidenziata nel testo) perché?
3. A03.
Il testo che hai letto richiama alcuni luoghi comuni sugli archivi e sulle persone che vi lavorano.
Fa una scelta per ogni riga, indicando quali affermazioni, secondo la prospettiva dell'articolo, sono Vero oppure Falso:
4. A04.
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"Ispirati dagli archivi 2016". - Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti
"Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto". Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento "Ispirati dagli archivi 2016" dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. "Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'". A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. "E non ne rimase nessuno", con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del "topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose". "Abbiamo un account Twitter" continua Cherchi "vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali". E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano "mediatori del diritto nei casi di richieste di oblio. Quando sono stati pubblicati online i documenti "degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie". Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. "Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo", ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di "archivi parlanti", in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato", ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono.
Nel testo gli archivi sono detti "Memoria palpabile del nostro passato" perché:
5. A05.
Quali sono, secondo l'articolo, i fattori che mettono a rischio l'esistenza degli archivi in Italia?
Fa una scelta per ogni riga, indicando : Non mette a rischio oppure Mette a rischio:
6. A06.
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"Ispirati dagli archivi 2016". - Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti
"Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto". Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento "Ispirati dagli archivi 2016" dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. "Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'". A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. "E non ne rimase nessuno", con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del "topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose". "Abbiamo un account Twitter" continua Cherchi "vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali". E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano "mediatori del diritto nei casi di richieste di oblio. Quando sono stati pubblicati online i documenti "degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie". Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. "Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo", ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di "archivi parlanti", in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato", ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono.
Qual è lo scopo del testo?
7. A07.
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"Ispirati dagli archivi 2016". - Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti
"Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto". Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento "Ispirati dagli archivi 2016" dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. "Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'". A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. "E non ne rimase nessuno", con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del "topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose". "Abbiamo un account Twitter" continua Cherchi "vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali". E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano "mediatori del diritto nei casi di richieste di oblio. Quando sono stati pubblicati online i documenti "degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie". Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. "Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo", ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di "archivi parlanti", in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato", ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono.
Che cosa intende dire l'autrice dell'articolo là dove scrive che
"gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti"?
8. B01.
Completa le frasi che seguono con il quantificatore adatto.
Scegli l'aggettivo (rispettando le regole di concordanza).
Attenzione: due aggettivi sono in più.
11. C01.
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Le cose di per sé non hanno nessun nome. Sono gli uomini che hanno dato e continuano a dare i nomi ad esse. Di solito non ci accorgiamo di questa verità perché siamo molto abituati a chiamare ogni cosa con un certo nome. È tanto forte l'abitudine di chiamare il cane col nome di cane, che quell'animale ci sembra che debba chiamarsi così. Eppure, lo stesso cane in spagnolo si chiama perro, in francese chien, in inglese dog, in tedesco Hund…; quale sarebbe allora il "vero" nome del cane? Evidentemente nessuno; oppure dobbiamo dire che i "veri" nomi del cane sono tutti quelli usati nelle varie lingue.
Gli uomini cominciarono a dare i nomi alle cose nella notte dei tempi, con sistemi che ignoriamo totalmente. Ogni tribù avrà avuto i suoi motivi per dare al cane, al sole, all'albero e a tutto ciò che vedeva e immaginava certi nomi, che furono diversi da quelli dati da altre tribù. Noi oggi non conosciamo più quei motivi; accettiamo e usiamo le parole così come ci sono arrivate. Su di noi, invece, influisce molto l'abitudine. È questa che ci fa sentire i nomi strettamente legati alle cose, concrete o astratte che siano.
Qualche esempio, a questo punto, può far capire meglio tutto il discorso. La cioccolata potrebbe essere chiamata con un altro nome qualsiasi continuando a restare quella che è; ma siccome siamo abituati a chiamarla cioccolata, quando pronunciamo questo nome abbiamo subito un'idea precisa di quella cosa e magari sentiamo anche l'acquolina in bocca!
Allo stesso modo, se una persona ha paura dei cani (magari perché è stato morso una volta), al grido di attento al cane! farà un salto di spavento: la parola cane, che pure potrebbe essere sostituita da un'altra, in lui produce ormai quell'effetto.
Le parole, anche se sono nate per caso, possono dunque suggestionare la nostra mente e i nostri sensi: e proprio per effetto di questa suggestione noi impariamo facilmente le parole e ci abituiamo ad usare la lingua con prontezza ed efficacia.
Alcune parole, per la verità, non ci sembrano formate proprio a caso. Ad esempio, rimbombo, ùlulo,scricchiolìo, abbaiare, miagolare, tintinnare sono parole che chiaramente imitano un suono o un rumore esterno. Eppure, anche queste parole sono diverse da una lingua all'altra: gli studiosi che si sono occupati attentamente di questo fenomeno, hanno notato che per gli italiani il gallo fa chicchiricchì e l'oca qua-qua, mentre per i francesi il gallo fa cocoricò e l'oca muàc-muàc o cuèn-cuèn; per gli italiani lo sparo faceva pum e il bussare toc-toc, ma da quando si sono diffusi i fumetti, soprattutto Topolino che viene dall'America, lo sparo fa bang e il bussare fa knock, perché gli inglesi e gli americani riproducono così questi rumori.
Gli uomini, a quanto pare, hanno una sensazione diversa perfino dei rumori che colpiscono le loro orecchie. Questo conferma che le cose sono quello che sono e che noi cerchiamo di dare ad esse dei nomi secondo le nostre impressioni. Ma certo la stragrande maggioranza delle parole che oggi usiamo (del tipo sole, cane, strada, alto, bello, coraggio, attenzione, perché, sì, no) per noi non imitano proprio nulla. Se queste parole ci sembrano così adatte a esprimere quei concetti questo è dovuto solo all'abitudine. Il chiamare una cosa sempre con quel nome ci fa sentire nel nome quasi la "presenza" della cosa stessa.
Associa ad ogni termine la lingua da cui deriva:
12. C02.
Le cose di per sé non hanno nessun nome. Sono gli uomini che hanno dato e continuano a dare i nomi ad esse. Di solito non ci accorgiamo di questa verità perché siamo molto abituati a chiamare ogni cosa con un certo nome. È tanto forte l'abitudine di chiamare il cane col nome di cane, che quell'animale ci sembra che debba chiamarsi così. Eppure, lo stesso cane in spagnolo si chiama perro, in francese chien, in inglese dog, in tedesco Hund…; quale sarebbe allora il "vero" nome del cane? Evidentemente nessuno; oppure dobbiamo dire che i "veri" nomi del cane sono tutti quelli usati nelle varie lingue.
Gli uomini cominciarono a dare i nomi alle cose nella notte dei tempi, con sistemi che ignoriamo totalmente. Ogni tribù avrà avuto i suoi motivi per dare al cane, al sole, all'albero e a tutto ciò che vedeva e immaginava certi nomi, che furono diversi da quelli dati da altre tribù. Noi oggi non conosciamo più quei motivi; accettiamo e usiamo le parole così come ci sono arrivate. Su di noi, invece, influisce molto l'abitudine. È questa che ci fa sentire i nomi strettamente legati alle cose, concrete o astratte che siano.
Qualche esempio, a questo punto, può far capire meglio tutto il discorso. La cioccolata potrebbe essere chiamata con un altro nome qualsiasi continuando a restare quella che è; ma siccome siamo abituati a chiamarla cioccolata, quando pronunciamo questo nome abbiamo subito un'idea precisa di quella cosa e magari sentiamo anche l'acquolina in bocca!
Allo stesso modo, se una persona ha paura dei cani (magari perché è stato morso una volta), al grido di attento al cane! farà un salto di spavento: la parola cane, che pure potrebbe essere sostituita da un'altra, in lui produce ormai quell'effetto.
Le parole, anche se sono nate per caso, possono dunque suggestionare la nostra mente e i nostri sensi: e proprio per effetto di questa suggestione noi impariamo facilmente le parole e ci abituiamo ad usare la lingua con prontezza ed efficacia.
Alcune parole, per la verità, non ci sembrano formate proprio a caso. Ad esempio, rimbombo, ùlulo,scricchiolìo, abbaiare, miagolare, tintinnare sono parole che chiaramente imitano un suono o un rumore esterno. Eppure, anche queste parole sono diverse da una lingua all'altra: gli studiosi che si sono occupati attentamente di questo fenomeno, hanno notato che per gli italiani il gallo fa chicchiricchì e l'oca qua-qua, mentre per i francesi il gallo fa cocoricò e l'oca muàc-muàc o cuèn-cuèn; per gli italiani lo sparo faceva pum e il bussare toc-toc, ma da quando si sono diffusi i fumetti, soprattutto Topolino che viene dall'America, lo sparo fa bang e il bussare fa knock, perché gli inglesi e gli americani riproducono così questi rumori.
Gli uomini, a quanto pare, hanno una sensazione diversa perfino dei rumori che colpiscono le loro orecchie. Questo conferma che le cose sono quello che sono e che noi cerchiamo di dare ad esse dei nomi secondo le nostre impressioni. Ma certo la stragrande maggioranza delle parole che oggi usiamo (del tipo sole, cane, strada, alto, bello, coraggio, attenzione, perché, sì, no) per noi non imitano proprio nulla. Se queste parole ci sembrano così adatte a esprimere quei concetti questo è dovuto solo all'abitudine. Il chiamare una cosa sempre con quel nome ci fa sentire nel nome quasi la "presenza" della cosa stessa.
"Quale sarebbe allora il "vero" nome del cane?".
Perché in questa frase che compare all'inizio del testo "vero" è tra virgolette?
13. C03.
Le cose di per sé non hanno nessun nome. Sono gli uomini che hanno dato e continuano a dare i nomi ad esse. Di solito non ci accorgiamo di questa verità perché siamo molto abituati a chiamare ogni cosa con un certo nome. È tanto forte l'abitudine di chiamare il cane col nome di cane, che quell'animale ci sembra che debba chiamarsi così. Eppure, lo stesso cane in spagnolo si chiama perro, in francese chien, in inglese dog, in tedesco Hund…; quale sarebbe allora il "vero" nome del cane? Evidentemente nessuno; oppure dobbiamo dire che i "veri" nomi del cane sono tutti quelli usati nelle varie lingue.
Gli uomini cominciarono a dare i nomi alle cose nella notte dei tempi, con sistemi che ignoriamo totalmente. Ogni tribù avrà avuto i suoi motivi per dare al cane, al sole, all'albero e a tutto ciò che vedeva e immaginava certi nomi, che furono diversi da quelli dati da altre tribù. Noi oggi non conosciamo più quei motivi; accettiamo e usiamo le parole così come ci sono arrivate. Su di noi, invece, influisce molto l'abitudine. È questa che ci fa sentire i nomi strettamente legati alle cose, concrete o astratte che siano.
Qualche esempio, a questo punto, può far capire meglio tutto il discorso. La cioccolata potrebbe essere chiamata con un altro nome qualsiasi continuando a restare quella che è; ma siccome siamo abituati a chiamarla cioccolata, quando pronunciamo questo nome abbiamo subito un'idea precisa di quella cosa e magari sentiamo anche l'acquolina in bocca!
Allo stesso modo, se una persona ha paura dei cani (magari perché è stato morso una volta), al grido di attento al cane! farà un salto di spavento: la parola cane, che pure potrebbe essere sostituita da un'altra, in lui produce ormai quell'effetto.
Le parole, anche se sono nate per caso, possono dunque suggestionare la nostra mente e i nostri sensi: e proprio per effetto di questa suggestione noi impariamo facilmente le parole e ci abituiamo ad usare la lingua con prontezza ed efficacia.
Alcune parole, per la verità, non ci sembrano formate proprio a caso. Ad esempio, rimbombo, ùlulo,scricchiolìo, abbaiare, miagolare, tintinnare sono parole che chiaramente imitano un suono o un rumore esterno. Eppure, anche queste parole sono diverse da una lingua all'altra: gli studiosi che si sono occupati attentamente di questo fenomeno, hanno notato che per gli italiani il gallo fa chicchiricchì e l'oca qua-qua, mentre per i francesi il gallo fa cocoricò e l'oca muàc-muàc o cuèn-cuèn; per gli italiani lo sparo faceva pum e il bussare toc-toc, ma da quando si sono diffusi i fumetti, soprattutto Topolino che viene dall'America, lo sparo fa bang e il bussare fa knock, perché gli inglesi e gli americani riproducono così questi rumori.
Gli uomini, a quanto pare, hanno una sensazione diversa perfino dei rumori che colpiscono le loro orecchie. Questo conferma che le cose sono quello che sono e che noi cerchiamo di dare ad esse dei nomi secondo le nostre impressioni. Ma certo la stragrande maggioranza delle parole che oggi usiamo (del tipo sole, cane, strada, alto, bello, coraggio, attenzione, perché, sì, no) per noi non imitano proprio nulla. Se queste parole ci sembrano così adatte a esprimere quei concetti questo è dovuto solo all'abitudine. Il chiamare una cosa sempre con quel nome ci fa sentire nel nome quasi la "presenza" della cosa stessa.
In che modo si sono associate le parole agli oggetti o agli elementi naturali nei tempi antichi?
14. C04.
Leggi il seguente testo e poi rispondi alle domande
Le cose di per sé non hanno nessun nome. Sono gli uomini che hanno dato e continuano a dare i nomi ad esse. Di solito non ci accorgiamo di questa verità perché siamo molto abituati a chiamare ogni cosa con un certo nome. È tanto forte l'abitudine di chiamare il cane col nome di cane, che quell'animale ci sembra che debba chiamarsi così. Eppure, lo stesso cane in spagnolo si chiama perro, in francese chien, in inglese dog, in tedesco Hund…; quale sarebbe allora il "vero" nome del cane? Evidentemente nessuno; oppure dobbiamo dire che i "veri" nomi del cane sono tutti quelli usati nelle varie lingue.
Gli uomini cominciarono a dare i nomi alle cose nella notte dei tempi, con sistemi che ignoriamo totalmente. Ogni tribù avrà avuto i suoi motivi per dare al cane, al sole, all'albero e a tutto ciò che vedeva e immaginava certi nomi, che furono diversi da quelli dati da altre tribù. Noi oggi non conosciamo più quei motivi; accettiamo e usiamo le parole così come ci sono arrivate. Su di noi, invece, influisce molto l'abitudine. È questa che ci fa sentire i nomi strettamente legati alle cose, concrete o astratte che siano.
Qualche esempio, a questo punto, può far capire meglio tutto il discorso. La cioccolata potrebbe essere chiamata con un altro nome qualsiasi continuando a restare quella che è; ma siccome siamo abituati a chiamarla cioccolata, quando pronunciamo questo nome abbiamo subito un'idea precisa di quella cosa e magari sentiamo anche l'acquolina in bocca!
Allo stesso modo, se una persona ha paura dei cani (magari perché è stato morso una volta), al grido di attento al cane! farà un salto di spavento: la parola cane, che pure potrebbe essere sostituita da un'altra, in lui produce ormai quell'effetto.
Le parole, anche se sono nate per caso, possono dunque suggestionare la nostra mente e i nostri sensi: e proprio per effetto di questa suggestione noi impariamo facilmente le parole e ci abituiamo ad usare la lingua con prontezza ed efficacia.
Alcune parole, per la verità, non ci sembrano formate proprio a caso. Ad esempio, rimbombo, ùlulo,scricchiolìo, abbaiare, miagolare, tintinnare sono parole che chiaramente imitano un suono o un rumore esterno. Eppure, anche queste parole sono diverse da una lingua all'altra: gli studiosi che si sono occupati attentamente di questo fenomeno, hanno notato che per gli italiani il gallo fa chicchiricchì e l'oca qua-qua, mentre per i francesi il gallo fa cocoricò e l'oca muàc-muàc o cuèn-cuèn; per gli italiani lo sparo faceva pum e il bussare toc-toc, ma da quando si sono diffusi i fumetti, soprattutto Topolino che viene dall'America, lo sparo fa bang e il bussare fa knock, perché gli inglesi e gli americani riproducono così questi rumori.
Gli uomini, a quanto pare, hanno una sensazione diversa perfino dei rumori che colpiscono le loro orecchie. Questo conferma che le cose sono quello che sono e che noi cerchiamo di dare ad esse dei nomi secondo le nostre impressioni. Ma certo la stragrande maggioranza delle parole che oggi usiamo (del tipo sole, cane, strada, alto, bello, coraggio, attenzione, perché, sì, no) per noi non imitano proprio nulla. Se queste parole ci sembrano così adatte a esprimere quei concetti questo è dovuto solo all'abitudine. Il chiamare una cosa sempre con quel nome ci fa sentire nel nome quasi la "presenza" della cosa stessa.
Distingui tra le seguenti affermazioni le vere dalle false.
15. C05.
Le cose di per sé non hanno nessun nome. Sono gli uomini che hanno dato e continuano a dare i nomi ad esse. Di solito non ci accorgiamo di questa verità perché siamo molto abituati a chiamare ogni cosa con un certo nome. È tanto forte l'abitudine di chiamare il cane col nome di cane, che quell'animale ci sembra che debba chiamarsi così. Eppure, lo stesso cane in spagnolo si chiama perro, in francese chien, in inglese dog, in tedesco Hund…; quale sarebbe allora il "vero" nome del cane? Evidentemente nessuno; oppure dobbiamo dire che i "veri" nomi del cane sono tutti quelli usati nelle varie lingue.
Gli uomini cominciarono a dare i nomi alle cose nella notte dei tempi, con sistemi che ignoriamo totalmente. Ogni tribù avrà avuto i suoi motivi per dare al cane, al sole, all'albero e a tutto ciò che vedeva e immaginava certi nomi, che furono diversi da quelli dati da altre tribù. Noi oggi non conosciamo più quei motivi; accettiamo e usiamo le parole così come ci sono arrivate. Su di noi, invece, influisce molto l'abitudine. È questa che ci fa sentire i nomi strettamente legati alle cose, concrete o astratte che siano.
Qualche esempio, a questo punto, può far capire meglio tutto il discorso. La cioccolata potrebbe essere chiamata con un altro nome qualsiasi continuando a restare quella che è; ma siccome siamo abituati a chiamarla cioccolata, quando pronunciamo questo nome abbiamo subito un'idea precisa di quella cosa e magari sentiamo anche l'acquolina in bocca!
Allo stesso modo, se una persona ha paura dei cani (magari perché è stato morso una volta), al grido di attento al cane! farà un salto di spavento: la parola cane, che pure potrebbe essere sostituita da un'altra, in lui produce ormai quell'effetto.
Le parole, anche se sono nate per caso, possono dunque suggestionare la nostra mente e i nostri sensi: e proprio per effetto di questa suggestione noi impariamo facilmente le parole e ci abituiamo ad usare la lingua con prontezza ed efficacia.
Alcune parole, per la verità, non ci sembrano formate proprio a caso. Ad esempio, rimbombo, ùlulo,scricchiolìo, abbaiare, miagolare, tintinnare sono parole che chiaramente imitano un suono o un rumore esterno. Eppure, anche queste parole sono diverse da una lingua all'altra: gli studiosi che si sono occupati attentamente di questo fenomeno, hanno notato che per gli italiani il gallo fa chicchiricchì e l'oca qua-qua, mentre per i francesi il gallo fa cocoricò e l'oca muàc-muàc o cuèn-cuèn; per gli italiani lo sparo faceva pum e il bussare toc-toc, ma da quando si sono diffusi i fumetti, soprattutto Topolino che viene dall'America, lo sparo fa bang e il bussare fa knock, perché gli inglesi e gli americani riproducono così questi rumori.
Gli uomini, a quanto pare, hanno una sensazione diversa perfino dei rumori che colpiscono le loro orecchie. Questo conferma che le cose sono quello che sono e che noi cerchiamo di dare ad esse dei nomi secondo le nostre impressioni. Ma certo la stragrande maggioranza delle parole che oggi usiamo (del tipo sole, cane, strada, alto, bello, coraggio, attenzione, perché, sì, no) per noi non imitano proprio nulla. Se queste parole ci sembrano così adatte a esprimere quei concetti questo è dovuto solo all'abitudine. Il chiamare una cosa sempre con quel nome ci fa sentire nel nome quasi la "presenza" della cosa stessa.
Perché l'autore utilizza l'esempio della cioccolata?
16. C06.
Le cose di per sé non hanno nessun nome. Sono gli uomini che hanno dato e continuano a dare i nomi ad esse. Di solito non ci accorgiamo di questa verità perché siamo molto abituati a chiamare ogni cosa con un certo nome. È tanto forte l'abitudine di chiamare il cane col nome di cane, che quell'animale ci sembra che debba chiamarsi così. Eppure, lo stesso cane in spagnolo si chiama perro, in francese chien, in inglese dog, in tedesco Hund…; quale sarebbe allora il "vero" nome del cane? Evidentemente nessuno; oppure dobbiamo dire che i "veri" nomi del cane sono tutti quelli usati nelle varie lingue.
Gli uomini cominciarono a dare i nomi alle cose nella notte dei tempi, con sistemi che ignoriamo totalmente. Ogni tribù avrà avuto i suoi motivi per dare al cane, al sole, all'albero e a tutto ciò che vedeva e immaginava certi nomi, che furono diversi da quelli dati da altre tribù. Noi oggi non conosciamo più quei motivi; accettiamo e usiamo le parole così come ci sono arrivate. Su di noi, invece, influisce molto l'abitudine. È questa che ci fa sentire i nomi strettamente legati alle cose, concrete o astratte che siano.
Qualche esempio, a questo punto, può far capire meglio tutto il discorso. La cioccolata potrebbe essere chiamata con un altro nome qualsiasi continuando a restare quella che è; ma siccome siamo abituati a chiamarla cioccolata, quando pronunciamo questo nome abbiamo subito un'idea precisa di quella cosa e magari sentiamo anche l'acquolina in bocca!
Allo stesso modo, se una persona ha paura dei cani (magari perché è stato morso una volta), al grido di attento al cane! farà un salto di spavento: la parola cane, che pure potrebbe essere sostituita da un'altra, in lui produce ormai quell'effetto.
Le parole, anche se sono nate per caso, possono dunque suggestionare la nostra mente e i nostri sensi: e proprio per effetto di questa suggestione noi impariamo facilmente le parole e ci abituiamo ad usare la lingua con prontezza ed efficacia.
Alcune parole, per la verità, non ci sembrano formate proprio a caso. Ad esempio, rimbombo, ùlulo,scricchiolìo, abbaiare, miagolare, tintinnare sono parole che chiaramente imitano un suono o un rumore esterno. Eppure, anche queste parole sono diverse da una lingua all'altra: gli studiosi che si sono occupati attentamente di questo fenomeno, hanno notato che per gli italiani il gallo fa chicchiricchì e l'oca qua-qua, mentre per i francesi il gallo fa cocoricò e l'oca muàc-muàc o cuèn-cuèn; per gli italiani lo sparo faceva pum e il bussare toc-toc, ma da quando si sono diffusi i fumetti, soprattutto Topolino che viene dall'America, lo sparo fa bang e il bussare fa knock, perché gli inglesi e gli americani riproducono così questi rumori.
Gli uomini, a quanto pare, hanno una sensazione diversa perfino dei rumori che colpiscono le loro orecchie. Questo conferma che le cose sono quello che sono e che noi cerchiamo di dare ad esse dei nomi secondo le nostre impressioni. Ma certo la stragrande maggioranza delle parole che oggi usiamo (del tipo sole, cane, strada, alto, bello, coraggio, attenzione, perché, sì, no) per noi non imitano proprio nulla. Se queste parole ci sembrano così adatte a esprimere quei concetti questo è dovuto solo all'abitudine. Il chiamare una cosa sempre con quel nome ci fa sentire nel nome quasi la "presenza" della cosa stessa.
Perché si cita Topolino?
17. C07.
Le cose di per sé non hanno nessun nome. Sono gli uomini che hanno dato e continuano a dare i nomi ad esse. Di solito non ci accorgiamo di questa verità perché siamo molto abituati a chiamare ogni cosa con un certo nome. È tanto forte l'abitudine di chiamare il cane col nome di cane, che quell'animale ci sembra che debba chiamarsi così. Eppure, lo stesso cane in spagnolo si chiama perro, in francese chien, in inglese dog, in tedesco Hund…; quale sarebbe allora il "vero" nome del cane? Evidentemente nessuno; oppure dobbiamo dire che i "veri" nomi del cane sono tutti quelli usati nelle varie lingue.
Gli uomini cominciarono a dare i nomi alle cose nella notte dei tempi, con sistemi che ignoriamo totalmente. Ogni tribù avrà avuto i suoi motivi per dare al cane, al sole, all'albero e a tutto ciò che vedeva e immaginava certi nomi, che furono diversi da quelli dati da altre tribù. Noi oggi non conosciamo più quei motivi; accettiamo e usiamo le parole così come ci sono arrivate. Su di noi, invece, influisce molto l'abitudine. È questa che ci fa sentire i nomi strettamente legati alle cose, concrete o astratte che siano.
Qualche esempio, a questo punto, può far capire meglio tutto il discorso. La cioccolata potrebbe essere chiamata con un altro nome qualsiasi continuando a restare quella che è; ma siccome siamo abituati a chiamarla cioccolata, quando pronunciamo questo nome abbiamo subito un'idea precisa di quella cosa e magari sentiamo anche l'acquolina in bocca!
Allo stesso modo, se una persona ha paura dei cani (magari perché è stato morso una volta), al grido di attento al cane! farà un salto di spavento: la parola cane, che pure potrebbe essere sostituita da un'altra, in lui produce ormai quell'effetto.
Le parole, anche se sono nate per caso, possono dunque suggestionare la nostra mente e i nostri sensi: e proprio per effetto di questa suggestione noi impariamo facilmente le parole e ci abituiamo ad usare la lingua con prontezza ed efficacia.
Alcune parole, per la verità, non ci sembrano formate proprio a caso. Ad esempio, rimbombo, ùlulo,scricchiolìo, abbaiare, miagolare, tintinnare sono parole che chiaramente imitano un suono o un rumore esterno. Eppure, anche queste parole sono diverse da una lingua all'altra: gli studiosi che si sono occupati attentamente di questo fenomeno, hanno notato che per gli italiani il gallo fa chicchiricchì e l'oca qua-qua, mentre per i francesi il gallo fa cocoricò e l'oca muàc-muàc o cuèn-cuèn; per gli italiani lo sparo faceva pum e il bussare toc-toc, ma da quando si sono diffusi i fumetti, soprattutto Topolino che viene dall'America, lo sparo fa bang e il bussare fa knock, perché gli inglesi e gli americani riproducono così questi rumori.
Gli uomini, a quanto pare, hanno una sensazione diversa perfino dei rumori che colpiscono le loro orecchie. Questo conferma che le cose sono quello che sono e che noi cerchiamo di dare ad esse dei nomi secondo le nostre impressioni. Ma certo la stragrande maggioranza delle parole che oggi usiamo (del tipo sole, cane, strada, alto, bello, coraggio, attenzione, perché, sì, no) per noi non imitano proprio nulla. Se queste parole ci sembrano così adatte a esprimere quei concetti questo è dovuto solo all'abitudine. Il chiamare una cosa sempre con quel nome ci fa sentire nel nome quasi la "presenza" della cosa stessa.
Nel testo l'autore fornisce esempi di parole che imitano o non imitano dei rumori.
Riconosci quali sono le une o le altre
18. C08.
Le cose di per sé non hanno nessun nome. Sono gli uomini che hanno dato e continuano a dare i nomi ad esse. Di solito non ci accorgiamo di questa verità perché siamo molto abituati a chiamare ogni cosa con un certo nome. È tanto forte l'abitudine di chiamare il cane col nome di cane, che quell'animale ci sembra che debba chiamarsi così. Eppure, lo stesso cane in spagnolo si chiama perro, in francese chien, in inglese dog, in tedesco Hund…; quale sarebbe allora il "vero" nome del cane? Evidentemente nessuno; oppure dobbiamo dire che i "veri" nomi del cane sono tutti quelli usati nelle varie lingue.
Gli uomini cominciarono a dare i nomi alle cose nella notte dei tempi, con sistemi che ignoriamo totalmente. Ogni tribù avrà avuto i suoi motivi per dare al cane, al sole, all'albero e a tutto ciò che vedeva e immaginava certi nomi, che furono diversi da quelli dati da altre tribù. Noi oggi non conosciamo più quei motivi; accettiamo e usiamo le parole così come ci sono arrivate. Su di noi, invece, influisce molto l'abitudine. È questa che ci fa sentire i nomi strettamente legati alle cose, concrete o astratte che siano.
Qualche esempio, a questo punto, può far capire meglio tutto il discorso. La cioccolata potrebbe essere chiamata con un altro nome qualsiasi continuando a restare quella che è; ma siccome siamo abituati a chiamarla cioccolata, quando pronunciamo questo nome abbiamo subito un'idea precisa di quella cosa e magari sentiamo anche l'acquolina in bocca!
Allo stesso modo, se una persona ha paura dei cani (magari perché è stato morso una volta), al grido di attento al cane! farà un salto di spavento: la parola cane, che pure potrebbe essere sostituita da un'altra, in lui produce ormai quell'effetto.
Le parole, anche se sono nate per caso, possono dunque suggestionare la nostra mente e i nostri sensi: e proprio per effetto di questa suggestione noi impariamo facilmente le parole e ci abituiamo ad usare la lingua con prontezza ed efficacia.
Alcune parole, per la verità, non ci sembrano formate proprio a caso. Ad esempio, rimbombo, ùlulo,scricchiolìo, abbaiare, miagolare, tintinnare sono parole che chiaramente imitano un suono o un rumore esterno. Eppure, anche queste parole sono diverse da una lingua all'altra: gli studiosi che si sono occupati attentamente di questo fenomeno, hanno notato che per gli italiani il gallo fa chicchiricchì e l'oca qua-qua, mentre per i francesi il gallo fa cocoricò e l'oca muàc-muàc o cuèn-cuèn; per gli italiani lo sparo faceva pum e il bussare toc-toc, ma da quando si sono diffusi i fumetti, soprattutto Topolino che viene dall'America, lo sparo fa bang e il bussare fa knock, perché gli inglesi e gli americani riproducono così questi rumori.
Gli uomini, a quanto pare, hanno una sensazione diversa perfino dei rumori che colpiscono le loro orecchie. Questo conferma che le cose sono quello che sono e che noi cerchiamo di dare ad esse dei nomi secondo le nostre impressioni. Ma certo la stragrande maggioranza delle parole che oggi usiamo (del tipo sole, cane, strada, alto, bello, coraggio, attenzione, perché, sì, no) per noi non imitano proprio nulla. Se queste parole ci sembrano così adatte a esprimere quei concetti questo è dovuto solo all'abitudine. Il chiamare una cosa sempre con quel nome ci fa sentire nel nome quasi la "presenza" della cosa stessa.
In base al testo letto, che cosa fa sì che il legame tra una parola e il suo concetto diventi indispensabile?
19. C09.
Le cose di per sé non hanno nessun nome. Sono gli uomini che hanno dato e continuano a dare i nomi ad esse. Di solito non ci accorgiamo di questa verità perché siamo molto abituati a chiamare ogni cosa con un certo nome. È tanto forte l'abitudine di chiamare il cane col nome di cane, che quell'animale ci sembra che debba chiamarsi così. Eppure, lo stesso cane in spagnolo si chiama perro, in francese chien, in inglese dog, in tedesco Hund…; quale sarebbe allora il "vero" nome del cane? Evidentemente nessuno; oppure dobbiamo dire che i "veri" nomi del cane sono tutti quelli usati nelle varie lingue.
Gli uomini cominciarono a dare i nomi alle cose nella notte dei tempi, con sistemi che ignoriamo totalmente. Ogni tribù avrà avuto i suoi motivi per dare al cane, al sole, all'albero e a tutto ciò che vedeva e immaginava certi nomi, che furono diversi da quelli dati da altre tribù. Noi oggi non conosciamo più quei motivi; accettiamo e usiamo le parole così come ci sono arrivate. Su di noi, invece, influisce molto l'abitudine. È questa che ci fa sentire i nomi strettamente legati alle cose, concrete o astratte che siano.
Qualche esempio, a questo punto, può far capire meglio tutto il discorso. La cioccolata potrebbe essere chiamata con un altro nome qualsiasi continuando a restare quella che è; ma siccome siamo abituati a chiamarla cioccolata, quando pronunciamo questo nome abbiamo subito un'idea precisa di quella cosa e magari sentiamo anche l'acquolina in bocca!
Allo stesso modo, se una persona ha paura dei cani (magari perché è stato morso una volta), al grido di attento al cane! farà un salto di spavento: la parola cane, che pure potrebbe essere sostituita da un'altra, in lui produce ormai quell'effetto.
Le parole, anche se sono nate per caso, possono dunque suggestionare la nostra mente e i nostri sensi: e proprio per effetto di questa suggestione noi impariamo facilmente le parole e ci abituiamo ad usare la lingua con prontezza ed efficacia.
Alcune parole, per la verità, non ci sembrano formate proprio a caso. Ad esempio, rimbombo, ùlulo,scricchiolìo, abbaiare, miagolare, tintinnare sono parole che chiaramente imitano un suono o un rumore esterno. Eppure, anche queste parole sono diverse da una lingua all'altra: gli studiosi che si sono occupati attentamente di questo fenomeno, hanno notato che per gli italiani il gallo fa chicchiricchì e l'oca qua-qua, mentre per i francesi il gallo fa cocoricò e l'oca muàc-muàc o cuèn-cuèn; per gli italiani lo sparo faceva pum e il bussare toc-toc, ma da quando si sono diffusi i fumetti, soprattutto Topolino che viene dall'America, lo sparo fa bang e il bussare fa knock, perché gli inglesi e gli americani riproducono così questi rumori.
Gli uomini, a quanto pare, hanno una sensazione diversa perfino dei rumori che colpiscono le loro orecchie. Questo conferma che le cose sono quello che sono e che noi cerchiamo di dare ad esse dei nomi secondo le nostre impressioni. Ma certo la stragrande maggioranza delle parole che oggi usiamo (del tipo sole, cane, strada, alto, bello, coraggio, attenzione, perché, sì, no) per noi non imitano proprio nulla. Se queste parole ci sembrano così adatte a esprimere quei concetti questo è dovuto solo all'abitudine. Il chiamare una cosa sempre con quel nome ci fa sentire nel nome quasi la "presenza" della cosa stessa.
Quali sono le varianti italiane di "bang" e "knock"?
23. D04.
Completa la frase che segue con i termini adatti :
È l'allarme lanciato dalla Coldiretti per l'ondata di gelo siberiano (1) arrivo sull'Italia.
A preoccupare gli (2) sono i danni alle colture che sono impreparate di fronte al drastico
ed improvviso (3) della colonnina di mercurio. Nelle produzioni orticole di pieno campo,
con temperature sotto lo (4) sono a rischio le coltivazioni invernali come cavoli, verze, cicorie e broccoli.